Con la sentenza n. 15323 depositata il 6 giugno 2019, la V Sezione Civile della Corte di Cassazione ha stabilito che l’iscrizione al CONI, per il tramite di enti o federazioni, non è sufficiente per spogliare una ASD dalle finalità lucrative.
Il fatto
L’Associazione Sportiva Dilettantistica in questione ha impugnato l’avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle Entrate di Mantova per l’anno 2004, a seguito di verifica fiscale disposta dalla Guardia di Finanza, i cui esiti sono stati riportati nel processo verbale di contestazione del 7 marzo 2006. Con tale atto era stato richiesto il pagamento di imposte dirette e Iva a seguito del disconoscimento della natura di associazione sportiva dilettantistica, con quantificazione induttiva dei maggiori ricavi.
La Commissione tributaria provinciale di Mantova ha accolto il ricorso con sentenza n. 23/2/10.
La Commissione tributaria regionale della Lombardia, con sentenza n. 05/68/11 depositata il 24 febbraio 2011, ha accolto l’impugnazione dell’Agenzia delle entrate, confermando l’avviso di accertamento. I giudici del gravame hanno ritenuto che le argomentazioni di parte non fossero sufficienti nè a dimostrare che l’attività non avesse scopo di lucro, nè a provare che i rilievi mossi fossero da disattendere, mentre i molteplici elementi evidenziati nell’avviso di accertamento dimostravano come l’associazione non rientrasse nella qualifica di ente non commerciale.
Il contribuente ha proposto ricorso per cassazione affidato a sei motivi.
L’Agenzia delle Entrate si è costituita con controricorso.
La decisione
In tema di agevolazioni tributarie, l’esenzione d’imposta prevista dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 111 (ora 148), in favore delle associazioni non lucrative dipende non dall’elemento formale della veste giuridica assunta (nella specie, associazione sportiva dilettantistica), ma dall’effettivo svolgimento di attività senza fine di lucro, il cui onere probatorio incombe sulla contribuente e non può ritenersi soddisfatto dal dato del tutto estrinseco e neutrale dell’affiliazione alle federazioni sportive e al Coni (Cass. 30 aprile 2018, n. 10393; Cass. 23 novembre 2016, n. 23789; Cass. 5 agosto 2016, n. 16449).
Risulta pertanto indifferente ai fini del soddisfacimento dell’onere probatorio che incombe sulla contribuente la circostanza estrinseca dell’affiliazione a un ente di promozione sportiva, riconosciuto dal Coni, o a quest’ultimo che la parte ricorrente vorrebbe dimostrare a fondamento della natura non lucrativa della sua attività.
La disciplina generale riguardante i soggetti sottoposti all’imposta sul reddito delle società, fissata dagli artt. 86 e 87 T.U.I.R. (ora 72 e 73) – e di cui gli artt. 108 (ora 143) ss. costituiscono una deroga – si applica a tutti i redditi, in denaro o in natura, posseduti da soggetti diversi dalle persone fisiche (Cass. 9 maggio 2018, n. 11048).
Ne deriva che l’onere di provare la sussistenza dei presupposti di fatto che giustificano l’esenzione (ossia che l’ente sebbene somigliasse ad una attività commerciale in realtà non lo era) è a carico del soggetto che la invoca, secondo gli ordinari criteri stabiliti dall’art. 2697 c.c., non essendo certo sufficiente allegare lo statuto sociale e la finalità ivi recepita (Cass. 29 luglio 2005, n. 16032; Cass. 20 ottobre 2006, n. 22598; Cass. 25 novembre 2008, n. 28005; Cass. 12 maggio 2010, n. 11456; Cass. 12 febbraio 2013, n. 3360; Cass. 4 ottobre 2017, n. 23167). L’esenzione d’imposta prevista dall’art. 148 T.U.I.R. in favore delle associazioni non lucrative dipende pertanto non dall’elemento formale della veste giuridica assunta dall’associazione, ma dall’effettivo svolgimento di attività senza fine di lucro.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, non si considerano commerciali le attività svolte in diretta attuazione degli scopi istituzionali, sebbene dietro pagamento di uno specifico corrispettivo, a favore dei propri associati, purchè siano concretamente rispettate quelle clausole statutarie che assicurano l’effettività del rapporto associativo, quali ad esempio il diritto di voto in relazione all’approvazione e modificazione dello statuto e dei regolamenti ed alla nomina degli organi direttivi (Cass. 4 marzo 2015, n. 4315). Invece si deve escludere dai suddetti benefici quella compagine sportiva che, gestore di palestra, esiga dalle persone aventi la veste formale di associati un corrispettivo proporzionale all’attività erogata in loro favore e le escluda da tutte le scelte decisive per la vita dell’associazione, trattandosi di caratteristiche che equiparano in tutto la suddetta compagine ad un imprenditore commerciale (Cass. 11 dicembre 2012, n. 22578).
Sintesi e raccomandazioni
Alla luce di quanto esposto, appare (per l’ennesima volta) chiaro che le clausole statutarie e l’affiliazione ad una Federazione Nazionale o ad un E.P.S. non sono MAI sufficienti per dimostrare la sola istituzionalità dell’attività sportiva. La mancata partecipazione degli associati, soprattutto se camuffati da tesserati, alla vita associativa è presunzione di commercialità, così come lo è la previsione di attività incompatibili con lo statuto e/o con l’ordinamento sportivo, ovvero quando si è in presenza di condizioni “ibride” riguardo le differenze di importi di quote associative e partecipative tra singoli associati dello stesso ente.
Vincenzo D’Anzica
Dottore Commercialista e Revisore Contabile